Mariano

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Trentun anni.

C’è una cosa a cui non riesco a smettere di pensare: Satnam Singh aveva trentun anni. 

Io ho trentun anni.

Vuol dire che io e Satnam Singh abbiamo condiviso lo stesso tempo. Negli ultimi tre anni, abbiamo persino condiviso lo stesso posto nel mondo. Così vicini, eppure infinitamente distanti.

Due mondi diversi sullo stesso pianeta.

Trovo assurdo pensare che la cosa che più definisce il destino di un uomo è il contesto in cui nasce: è come se inferno e paradiso esistessero e fossero entrambi qui e ora e dipendono da un singolo tiro di dadi. Se la fortuna ti assiste nasci nella ricchezza, nei diritti ottenuti dalle vittorie di chi ha vissuto prima di te, nella vanità che deriva dalla noia; se la fortuna ha deciso di voltarti le spalle, le tue possibilità di una vita dignitosa sono infinitamente ridotte, se non nulle.

Non voglio essere frainteso: non sono uno di quei fatalisti che pensa che esista qualcosa come il destino e che sia tutto scritto. No, queste cazzate non fanno per me. Ma io a trentun’anni non ho mai dovuto neanche immaginare di attraversare il mondo per necessità; di lavorare in un’azienda agricola con mia moglie facendomi sfruttare.

Di chiamare qualcuno PADRONE.

Di vivere tre anni in schiavitù – magari considerandola una situazione comunque migliore di quella da cui venivo – e finire abbandonato con un pezzo del MIO braccio in una cesta della frutta a morire dissanguato. In nome di cosa? Della salvaguardia del profitto di qualcuno che è nato dalla parte giusta; che la partita a dadi con la vita l’ha vinta, senza averne alcun merito. In nome di chi a trentasette anni gestisce già l’azienda agricola di famiglia e che considera delle persone dei sub-umani, macchinari di carne a basso prezzo che puoi smaltire abbandonandoli se si rompono. Esseri senza valore ai quali può addirittura addossare la colpa, fingendoti una vittima.

Satnam Singh ha perso la vita e chi gestisce l’azienda agricola si definisce vittima

Mi rendo conto che la mia sembra una di quelle paternali moraliste vuote, che serve più a mostrare chi sono io che evidenziare effettivamente un problema, ma non è quello il mio obiettivo.

Non credo che il fatto che poichè qualcuno sta peggio di noi – molto peggio; estremamente peggio; infinitamente peggio di noi – ci privi della possibilità di lamentarci o di vivere un disagio. Ognuno vive il malessere relativo al proprio contesto e al proprio modo di essere ed è sacrosanto, ma forse questa volta – come avrebbero dovuto infinite altre – potrebbe farci ripensare a tutta quella retorica della sfiga che piove solo ed esclusivamente su di noi; della competizione a chi è più sfigato, della lamentela continua. Insomma, potremmo riconsiderare almeno la nostra posizione. Potremmo provare a ritrovare un po’ di empatia, di impegno nel migliorare vicendevolmente le nostre situazioni. Magari non solo le nostre, ma anche quelle di chi, a trentun anni, rischia di morire dissanguato dopo aver perso un braccio. E non in guerra, ma in un campo di grano.

Io avrò trentun anni ancora per poco.

Satnam Singh li avrà per sempre.


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