Mariano

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Tempo di qualità

Quando ho iniziato ad appuntare sulle note del telefono i miei pensieri lo facevo soprattutto mentre camminavo, magari tornado a casa dal lavoro oppure andando verso un punto di incontro con la mia compagna o degli amici. Pian piano scrivere ha assunto un peso sempre maggiore nella mia vita, al punto da ritagliarmi del tempo durante il mio tempo libero o da farlo durante delle ore lavorative. Piu in generale, comunicare – e soprattutto farlo bene – ha assunto un peso sempre maggiore nella mia vita, al punto da iniziare a mostrare lati di me stesso che forse neanche io conoscevo, che forse neanche esistevano fino al presentarsi di questa necessità. La maggior parte delle cose che scrivo le tengo ancora per me, perché non voglio creare una vetrina, non voglio esporre e vendere parole messe lì per accattivare. Scrivere per me è catartico: serve a farmi capire me stesso, cosa penso, cosa amo, cosa odio.

Non immaginavo che scrivere mi avrebbe donato una maggiore consapevolezza del mio tempo, che da risorsa infinita è diventata preziosa moneta di scambio. Oggi scambio gran parte del mio tempo per denaro, mi vendo otto ore al giorno per cinque giorni su sette per poter continuare a partecipare al gioco del capitalismo; sono anche abbastanza bravo: guadagno bene, ho dei risparmi che investo, posso permettermi cose “belle”. Eppure mi sembra di star sprecando il mio tempo, l’unica risorsa che non può essere restituita.

Inizialmente all’università non ho ingranato. L’ho presa sottogamba, sopravvalutando me stesso. Bighellonavo e pensavo che il minimo sforzo fosse più che adeguato a fronteggiare l’ambiente universitario, per cui dopo le lezioni tornavo a casa e giocavo al PC o guardavo una serie TV. In due anni ho dato gli esami di uno. Dopo una notte insonne ho preso la decisione di ripetere un anno, ma che questa volta sarebbe stato diverso: avrei studiato dopo le lezioni, rimanendo all’università fino a fine giornata. Non lo sapevo ancora, ma quello che stavo facendo era esattamente rivalutare il mio tempo. Le giornate senza significato iniziarono a diminuire e i risultati iniziarono ad arrivare, ma non solo dal punto di vista universitario. Ho iniziato a suonare con degli amici, a fare sport e a prendere lezioni di batteria. Ogni volta che aggiungevo qualcosa stavo rivalutando il mio tempo, rendendo ogni istante sempre più prezioso.

Per fortuna nell’ambiente universitario i rapporti umani non mancavano, quindi avevo tante possibilità di conoscere gente nuova e sempre diversa, per cui non ho dato un gran peso al tempo che dedicavo ai rapporti umani che intessevo. Allora avevo a disposizione tutto il mio tempo per coltivarli e molti di quei rapporti condividevano con me la stessa porzione di tempo e spazio, il che rendeva tutto estremamente più semplice.

Oggi le cose sono molto diverse: non sono più uno studente universitario da cinque anni (come passa il tempo) e non vivo più a Napoli. Come tanti ho trovato lavoro al nord e torno solo di tanto in tanto, con la conseguenza che i rapporti che una volta erano fatti di sguardi, di voci e di tocchi ora sono corrispondenze. Le chiacchierate, le discussioni, i momenti insieme sono diventati telefonate, messaggi, videochiamate. Nel frattempo ho sviluppato la necessità di maggior tempo per esprimermi, di più parole per essere più chiaro; di voler parlare anche di cose che non siano il “pallone” o che in generale non siano leggere. Non ripudio la leggerezza: ogni tanto è bene essere leggeri e superficiali, ma non si può pensare che nella vita ci si debba solo svagare.

Che poi perché sentiamo così tanta necessità di uno svago continuo, di una distrazione perenne?

Non credo che esista una risposta semplice a questa domanda, ma credo che in parte sia perché svendiamo il nostro tempo al lavoro, scegliendo nostro malgrado di nutrire le nostre tasche piuttosto che il nostro cervello o “la nostra anima”, per cui fruire di contenuti che arricchiscano la nostra conoscenza di un argomento o del mondo che ci circonda diventa noioso, discutere appassionatamente relativamente a ciò che accade o alle proprie idee diventa pesante e l’unico desiderio è quello di vivere con quanta più leggerezza possibile ogni istante non lavorativo, non venduto, perché ci pensa già la vita a darci botte su botte. Non condivido con questa visione del mondo e per questo, da quando scrivo, sento la necessità di ridare ancora una volta valore al mio tempo, cercando sempre di trovare uno spiraglio per una conversazione che sia interessante, che sia vera. Perché non trovo un senso nel trascorrere un lasso di tempo nello stesso spazio con qualcuno senza condividere nulla.

Perché dovrei sprecare la moneta più preziosa che ho in convenevoli o, peggio, in conversazioni sterili?

Approfitto quindi di ogni ritorno a Napoli per poter soddisfare il bisogno di tempo di qualità con le persone a me più care, spesso passando del tempo da soli a parlare oppure creando delle piccole tradizioni come quella di mangiare una mozzarella con le mani, insozzandoci completamente, giusto per ridere. Proprio in una di queste conversazioni ho scoperto che farò da testimone di nozze ad un amico e non potrei esserne più felice, ma oltre a questo è proprio della necessità di trascorrere tempo di qualità che abbiamo discusso.
Sebbene io abbia “soltanto” trentun anni e non possa fare la parte del vecchio decrepito, sento che le energie a mia disposizione iniziano a diminuire negli anni. Fare serata e bere un drink di troppo inizia ad avere conseguenze, dormire qualche ora in meno inizia ad essere stancante. Il tempo che non vendo al mio lavoro viene assorbito dalle responsabilità della vita quotidiana: cucinare, pulire, pagare bollette o risolvere piccoli problemi. A questo punto quello che rimane del mio tempo sono scampoli di giornata, gocce d’acqua nel deserto, e scegliere coscientemente cosa farne di queste gocce ritengo sia fondamentale. Pur non volendo giudicare chi sceglie l’inebetimento continuo, chi sceglie di fare il morto restando a galla e facendosi trascinare verso il giorno seguente, una critica va mossa: non si può pensare di riuscire a vivere nel mondo, a comprendere la vita, senza un po’ di impegno. Avere gli strumenti per riuscire a sfuggire alle insidie di un mondo sempre più complesso richiede impegno, ricerca continua di conoscenza in ogni campo. Ma apprendere non significa per forza aprire un libro e studiare, oppure ascoltare un professore emerito che dall’alto di un pulpito dà una lezione di chissà cosa. No, la maggior parte delle volte la conoscenza ci viene donata dagli altri, dalla loro esperienza, dalla loro visione del mondo.
Da quando scrivo mi sembra di portare con me sempre tantissime parole, di creare un pozzo nel tessuto spazio temporale, come se fossi una massa che genera una spinta gravitazione troppo forte rispetto a quella degli altri corpi che mi circondano. Quando mi fermo a riflettere su questa illusione mi rendo conto però di una cosa: parlo molto di più, ma ascolto infinitamente di più. Fare da parafulmine per delle conversazioni interessanti ha lo svantaggio di creare tanto rumore, ma ha il vantaggio di riuscire a captare segnali che possono lasciare un segno, che possono essere uno spunto per una riflessione a freddo, nella solitudine della propria mente.
La costante ricerca di evoluzione non è però indolore: la maggior parte delle persone genera un’immagine degli altri che è statica, assegnando delle caratteristiche ben precise ad ogni individuo. Immagino che sia un comportamento che ci portiamo indietro da quando eravamo dei cacciatori – raccoglitori, che ci serve a sapere velocemente se di qualcuno possiamo fidarci oppure no. Non lo so, fatto sta che con l’amico che citavo in precedenza ci trovavamo d’accordo col sentirci “bollati”, di portare una nomea che non ci fa onore, perché la maggior parte delle persone ha un’immagine di noi che non ci rappresenta più. La rappresentazione di chi non smette mai di cercare, di imparare, ha una data di scadenza e va aggiornata di quando in quando, ma non è semplice farci i conti né per chi quell’immagine di sé la cambia continuamente, né per chi deve imparare a conoscere qualcuno che pensava di conoscere già.

A valle di tutte queste difficoltà il mio pensiero è spesso quello di essere noioso, piuttosto che di riuscire a portare dell’interesse e del fervore. Per questo il mio modo di interagire è diventato sempre più tendente allo scherzo, alla battuta: ti friggerò il cervello parlando di cose serie, ma nel mentre magari ti regalo una risata. Insomma, come a dire che do uno schiaffo e una carezza. Chiaramente tutto ciò è estenuante ed è così che trovo tutte le interazioni col mondo intorno a me, estenuanti; frustranti, perché uscire di continuo dalla propria comfort zone, ascoltando vissuti altrui e cose delle quali non si sa niente, fa sentire come se si mostrasse sempre un lato ignorante di sé; impegnative, a causa della continua ricerca dello stile comunicativo, dei limiti da non oltrepassare, delle mine da scansare ma nel frattempo cercando di alzare l’asticella, cosicché né il mio tempo, né quello del mio interlocutore o della mia interlocutrice non vengano sprecati. Uno strazio, ma quando nell’intimità del mio pensiero ricordo un momento, uno spunto che è venuto da tutta questa fatica, è una soddisfazione immane e un piacere pensare che quello sforzo non sia stato vano, che al mio tempo io abbia assegnato il valore più alto possibile.

Se avete la sensazione che vivere così sia un’immensa fatica non avete torto. Ma è impossibile spiegare la soddisfazione di ogni nuova scoperta.


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