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Food for profit, contemporaneamente terribile e bellissimo

Avete presente quella sensazione di disagio che vi fa pensare “È tutto sbagliato. Non è possibile.“?
Avete mai avuto quel nodo alla gola che rende difficile deglutire, che rende difficile mandare giù un boccone che rende la bocca sempre più amara?
Avete mai avuto le lacrime agli occhi, ma non la forza per piangere?
Avete mai pensato “preferisco morire che far parte di tutto questo.“?

Nel marzo del 2020, quando è iniziata la pandemia da Coronavirus, mi trovavo a casa dei miei genitori. Avevo appena trovato lavoro, ma la diffusione a livello globale del Covid-19 stava ritardando il mio trasferimento.
Spinto dal periodo storico che stavamo vivendo ho iniziato a leggere Spillover di David Quammen, un libro che parla dei diversi casi in cui è avvenuto il salto da una specie animale all’uomo da parte di un virus; fenomeno chiamato in inglese, per l’appunto, spillover.
L’isteria collettiva generata dalla reclusione forzata ha generato tanto rumore, ma anche tanta consapevolezza e ha puntato i riflettori sulle storture dei nostri sistemi produttivi e sulle criticità di una globalizzazione sempre più spinta. Non voglio essere frainteso: non critico la globalizzazione in quanto tale, come ogni fenomeno ha le sue criticità correlate che vanno studiate, comprese e mitigate.
Ancora non lo sapevo, ma quel periodo avrebbe cambiato la mia vita.
Guardandomi indietro riesco a riconoscere le prime avvisaglie di un tormento che mi avrebbe portato ad essere chi sono oggi e chissà a cosa in futuro. Decisi di diventare vegetariano. Fino ad allora ero stato un discreto mangiatore di carne e ancora oggi il sapore e la consistenza di un buon taglio di carne li ricordo piacevolmente, ma diversamente dal passato non riesco più a tollerare quello che c’è dietro: il disprezzo nei confronti della malvagità esercita su animali innocenti – che ormai decodifichiamo come oggetti che esistono per il nostro consumo – della completa mancanza di rispetto delle norme ambientali – che dovrebbero proteggerci dall’inquinamento che uccide sempre più esseri viventi – e dei funzionari che si riempiono le tasche più di quanto facciano con le belle parole, ha avuto come naturale conseguenza quella di optare per un cambiamento radicale nella mia dieta, l’ennesimo di una serie di cambiamenti ancor più grandi. Stavo infatti per trasferirmi in una nuova città, da solo, per iniziare un percorso in cui nessuno mi conosceva. Potevo essere chi volevo. Certo, le persone a cui tenevo di più meritavano una spiegazione, ma sarebbero state anche quelle più propense a comprendere le mie scelte, anche per il solo fatto di volermi bene.
Così mi sono trasferito a Milano in un minuscolo monolocale e ho iniziato questo viaggio che pensavo sarebbe stato nel vegetarianismo, ma invece ha iniziato ad essere molto di più: non si trattava solo di non mangiare più carne, ma di iniziare a scegliere in modo più attento e consapevole ciò che mettevo in tavola, da dove veniva e cosa comportava comprarlo; com’era imballato e come poter creare il minimo spreco, e così via. Non ho smesso tutto a un tratto di comprare al supermercato, sia chiaro; si tratta di piccoli passi. Piccoli, ma costanti.
In tutto questo ho dovuto scontrarmi con un mondo vecchio, fatto di quella virilità vecchio stampo che si certifica con del “sano” nonnismo, del “simpatico” sessismo e dell’adorazione di pallone e carne. Almeno il pallone mi piace, ma la mia fortuna è stata un’altra: essendo un non violento e avendo iniziato a capire che si ottiene di più con un sorriso che con un urlo, ho iniziato a comunicare in modo tranquillo perché faccio ciò che faccio, senza curarmi troppo del giudizio altrui ma senza neanche pormi ad un livello morale superiore a quello del mio interlocutore. Sono scelte, ognuno fa le sue. Ho creato rapporti bellissimi anche con chi ha visioni completamente differenti dalle mie sul consumo della carne e ho aperto brecce che credevo impossibili; nel frattempo anche persone dalla mia vita precedente iniziavano a compiere scelte simili alla mia; un bel traguardo.

Nell’ultimo periodo, complice l’esperienza lavorativa in Indonesia alla quale ho accennato non so quante volte (ad esempio qui), ho allentato un po’ la mia stretta sul divieto di carne, complice anche il voler dividere il pasto con la mia compagna in totale facilità, senza “costringerla” ai miei vincoli autoimposti. Ad essere onesti non mi ha fatto mai pesare le mie scelte e abbiamo sempre mangiato piacevolmente vegetariano a casa, raramente ci sono stati animali sulla nostra tavola.
Tutto è cambiato dopo questo documentario.

Oggi anche la mia compagna ha smesso di mangiare carne ed entrambi siamo felici così. Perché riteniamo che sia importante smettere di contribuire al male verso qualunque altro essere vivente.
Il peso emotivo trasmesso da questo documentario mi ha fatto molto riflettere, oltre che darmi nuova forza di volontà: aldilà dei maltrattamenti verso gli animali, dei quali ero già a conoscenza ma le cui immagini si erano sbiadite nella mia testa, la cosa che più mi ha colpito è l’avarizia, la totale insensibilità nei confronti dei gradini più bassi della scala sociale, alla base della quale ci sono gli animali e subito sopra ci sono lavoratori immigrati, rei soltanto di essere nati in un luogo del mondo che abbiamo deciso debba essere povero, così che possa mantenersi in piedi la nostra democrazia. Ai vertici, esseri inumani: grossi calli viventi ormai incapaci di provare stimoli diversi da quelli dati da denaro e potere.

Durante la visione di Food for profit quello che resta impresso è come sia possibile pensare che il punto principale di tutta la questione sia aumentare la produttività con qualunque mezzo e a qualunque costo, perché tanto a pagarlo saranno i gradi più bassi della gerarchia sociale. Chi se ne frega se c’è chi muore di fame mentre noi sprechiamo il nostro cibo, l’importante è vendere di più. Chi se ne frega se qualcuno in un posto del mondo muore di una malattia facilmente curabile, l’importante è creare le condizioni attraverso le quali questo stesso qualcuno emigri, così da poter essere uno schiavo dell’era moderna.

È tutto sbagliato.

Il documentario mostra la situazione degli allevamenti intensivi e dei relativi sussidi dalle istituzioni europee, ma parla di molto di più: è l’essenza del capitalismo imperante che governa il mondo moderno. Dobbiamo far muovere l’economia sperando di non essere noi la prossima vita di scarto, così da riempire un po’ di più le tasche di un multimilionario.
Ora, non è che da dietro allo schermo del mio PC voglia iniziare a pontificare su cosa dovremmo fare e come, ma credo sia importante rendersi conto del mondo in cui viviamo: un mondo in cui ogni il prezzo che paghiamo per le nostre scelte non è mai uguale al costo che è stato speso per fabbricarle, ma la parte nascosta di questo costo la paga qualcun altro, molto probabilmente sotto forma di lavoro non retribuito o mancanza di diritti fondamentali. Ogni volta che compriamo del cibo al supermercato, ogni volta che compriamo un capo d’abbigliamento, dovremmo chiederci come mai costa così poco invece di farci prendere dalla smania di approfittare di un’offerta. Perché ciò di cui stiamo approfittando è la vita di qualcun altro.

Pensandoci, non è nient’altro che una moderna forma di colonialismo.

Food for profit sarà proiettato nei cinema per un po’ e si possono consultare le proiezioni qui. Io vorrei parlare di questo tema ancora a lungo, ma forse vale la pena di smetterla per ora. L’unica cosa che sento di dover fare è ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa azione che non temo di definire eroica, perché schiaffeggiandomi con la realtà hanno donato brillantezza a quella consapevolezza che stavo cercando di maturare sempre più, ma che forse si era un po’ sbiadita a causa della mia pigrizia.

Grazie per avermi ricordato che la vita è impegno.


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2 risposte a “Food for profit, contemporaneamente terribile e bellissimo”

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