Mariano

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Una missione.

Ieri ero un po’ bloccato. Durante la giornata lavorativa si sono presentati tanti appigli, tanti spunti su cui riflettere, tutti accantonati in virtù della chiusura di determinate attività lavorative.

Le ultime. 

Già, alla fine le ho date ‘ste benedette dimissioni. E in pieno stile Mariano, l’ho fatto senza avere ancora nulla tra le mani. Il concorso per la borsa di dottorato si chiude il primo di luglio e soltanto il dodici del mese stesso saprò come finirà questa storia. Nel frattempo faccio colloqui di lavoro che mi tengono in esercizio qualora dovessi perdere questa occasione. Se così dovesse essere, voglio che non sia per demeriti miei. Ho preparato il CV, preso una certificazione di inglese e sto scrivendo un progetto, criterio necessario per la partecipazione bando.

Nel frattempo, ho ripreso a fare live su Twitch con un caro amico, col quale adoriamo divagare sui temi più attuali. Le live sono – per usare un eufemismo – amatoriali, ma trovo che sia un esercizio utile sia a mantenere in forma la mente, educandola costantemente alla discussione, sia un continuo stimolo a restare sul pezzo con ciò che succede nel mondo. È una cosa nuova, è una cosa affascinante.

Insomma, tanti stimoli e poco tempo. Sempre troppo poco tempo, o almeno così pare.

Ero bloccato, dicevo. Non sapendo cosa scrivere ho deciso di iniziare ad ascoltare Gomorra, di Roberto Saviano, letto da Saviano stesso. Si capisce subito quando ci si trova dinnanzi ad uno di quei capolavori immortali che possono essere guardati solo con candore e verso i quali non è possibile provare invidia. Un ascolto sfibrante – immagino la lettura, in cui forse mi immergerò nonostante l’ascolto – già dai primi capitoli. Ho trattenuto lacrime di rabbia e di frustrazione, frutto della crudezza della mia terra e della capacità di Saviano di raccontarla con leggiadria e maestria.

Si crede stupidamente che un atto criminale, per qualche ragione, debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo. In realtà non c’è differenza: i gesti conoscono un’elasticità che i giudizi etici ignorano.

Gomorra – Roberto Saviano

I racconti di Saviano si legano a doppio filo alla storia di caporalato di Satnam Singh. Non nel fatto in sé, è ovvio, ma nella matrice mafiosa del caporalato, inteso come fenomeno che infesta diversi settori del mondo lavorativo italiano.
In realtà più ascolto il racconto di Saviano sul successo imprenditoriale della camorra, più mi rendo conto di quanto sia labile il confine tra il mondo emerso e quello sommerso. Come nel caso dei brand di alta moda, in cui non vi è differenza tra un modello venduto in un negozio e quelli “pezzotti” (no, non contraffatti. PEZZOTTI.) dei mercati paralleli che affollano ormai qualunque luogo sulla faccia della terra. Questi racconti mi fanno riflettere sulla spaventosa normalizzazione della schiavitù, dei soprusi e delle violenze di cui siamo responsabili ogni giorno con frasi del tipo “Stai pagando il marchio”. Riflettendoci, pagare il marchio è effettivamente ciò che facciamo, perché gli abiti, le parti che li costituiscono e le persone che li producono sono sempre le stesse. L’unica differenza è il marchio, ovvero la sua approvazione di quel preciso capo d’abbigliamento, di quell’esemplare. Ripenso a quante volte l’ho detta io quella frase, quante volte cercando di capire di che numero fosse un paio di scarpe ho letto di sfuggita “Made in Taiwan” senza che avesse alcun peso per me. Ripenso allo stupore (positivo stavolta) provato quando un amico ha deciso di non andare a fare la spesa al Carrefour perché sostenitore di Israele. C’è un filo conduttore a tutto questo, c’è un discorso complesso che si può fare e che si fa da anni, da decenni: ecco a cosa ha portato la scissione tra i nostri gesti e la politica, tra le nostre azioni e gli ideali che rappresentano; ecco a cosa ha portato l’asservimento al capitale. Ecco a cosa ha portato trasformare i soldi da mezzo a significato.

A tal proposito ascoltavo qualche giorno fa – se non erro mentre stendevo una lavatrice – Roberto Mercadini – drammaturgo, scrittore e youtuber – che ragionava sul fatto che a nessuno interessano veramente i soldi, che secondo lui non sono altro che una giustificazione per le proprie perversioni. Cita, ad esempio, un ladro che rubava in casa d’altri lasciando come firma i suoi escrementi; oppure il caso di una donna che smette di farsi domande morali relativamente alla propria promiscuità sessuale dopo aver deciso di farsi pagare, di prostituirsi.
Nella sua ottica i soldi non sono soltanto una giustificazione ma anche uno scudo e in parte capisco quest’ottica, pur non essendo completamente d’accordo. Mercadini ha ragione su una cosa: i soldi sono a tutti gli effetti un mezzo e su questo io concordo con lui. Ciò su cui non concordo è che ciò che ricercano davvero le persone, il significato della loro esistenza e il traguardo alla fine del loro percorso, non siano i soldi. Non credo sia come sostiene Mercadini, tutt’altro: è ormai diffusissimo il cortocircuito logico per cui i soldi non vengono percepiti come mezzo di scambio, ma come significato della propria esistenza. Le persone vogliono i soldi, bramano i soldi. L’utilizzo di quei soldi è secondario e probabilmente sarà la rappresentazione dello status sociale che quell’individuo ritiene più corretta per sé. Questa rappresentazione del proprio status sociale attraverso il denaro non esiste davvero fintanto che il denaro non c’è; ciò che spesso c’è, invece, è l’immagine stereotipata offerta dai media che bombardano la nostra fantasia ogni giorno. Metti una sigaretta in bocca a James Dean e chiunque fumerà. Metti Marlboro sull’alettone di una vettura da corsa – stereotipo di quella virilità tossica che si nutre di competizione e rischio – e per essere uomo, per essere un fico, dovrai avere una sigaretta tra le labbra. Stessa cosa vale per il cibo, per l’alcol, per i vestiti, le auto di lusso, gli orologi, i viaggi, i ristoranti stellati, le barche e così via.

I soldi non interessano a nessuno – Roberto Mercadini

Nell’era della tecnologia e dei social network, la continua esposizione è il mezzo per mostrare i propri soldi.

Il ritratto del “Sistema” che Saviano dipinge in Gomorra non è nient’altro che questo: raggiungere la ricchezza attraverso lo sfruttamento di cose e persone senza alcuna remora, senza alcuna regola. Purtroppo, il mondo del lavoro “regolarizzato” non è così distante da quello creato dalla criminalità organizzata e, spesso, il confine tra i due mondi è così labile da essere impercettibile.
Per noi tutto ciò è normalissimo e credo che sia a causa, appunto, della nostra smania di avere molti soldi. Sempre più soldi. Al punto da aver completamente rimosso dalla nostra mente che paghiamo tutto troppo poco – non facendo altro che lamentarci del contrario – e che la parte del prezzo che non paghiamo è a carico di altre persone. Non persone qualunque, ma una categoria ben precisa: schiavi. Che siano dall’altra parte del mondo – in Cina a Taiwan o in Corea – o nei nostri campi agricoli, le persone sfruttate pagano quella parte di prezzo che a noi non arriva e lo pagano attraverso la mancanza di salari adeguati o l’assenza di diritti fondamentali, per fare due esempi banali.

Io non riesco a pensare ad altro da un po’ di tempo ormai. È come se stessi finalmente capendo, o forse sarebbe meglio dire accettando. il significato della mia vita o di questa porzione di essa: lottare contro le ingiustizie. Lottare contro il sistema capitalismo che rifiuta di cambiare le cose. A tal proposito, una lettura eccezionale è questa, nella quale Ferdinando Cotugno descrive il rapporto tra l’ambiente e il capitale, dei valori in gioco e delle previsioni ottimistiche e pessimistiche.

Ho smesso da un po’ di guardare altrove, ormai non riesco più a distogliere lo sguardo da quanto di brutto stiamo facendo ed essere parte di ciò mi distrugge. Lasciare il lavoro è solo il primo passo, il primo segnale di un risveglio che sarebbe dovuto avvenire già tempo fa. Per fortuna non è mai troppo tardi per uscire dal torpore, dal letargo morale e culturale in cui ci immergiamo per evitare di affrontare le difficoltà delle nostre minuscole vite, insulse, prima ancora che le sconfinate complessità del mondo. Per quanto mi riguarda, mi sono reso conto che era in quel torpore che risiedeva gran parte del mio dolore. Non fraintendetemi, soffro terribilmente nel sapere di animali negli allevamenti intensivi o persone abbandonate con braccia mozzate; soffro terribilmente vedendo i miei cari vivere in un costante senso di alienazione dalla realtà che non ha cura e che trova sollievo in effimeri istanti di felicità. Eppure, pur soffrendo più di prima, sono sereno. Ho accettato l’idea che la vita abbia un peso specifico intrinseco del quale non si può fare a meno, che per ognuno è diverso e insindacabile e che, alla fine, dovremmo farci i conti, fosse anche sul letto di morte. Ho accettato l’idea che la vita, la mia vita, debba essere un’avventura e come tale debba essere fatta di pericoli, di rischi, di strategie ponderate e decisioni avventate. Di frustrazione, di gioia, di dolore, di passione. D’amore, quell’amore che si dona e non si chiede mai in cambio.

Perché al contrario del denaro l’amore non è un mezzo, ma IL significato.


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