Mi sono messo alla prova. Qualcosa è andato bene, qualcosa no. Faccio tesoro di tutto quanto sono riuscito ad assorbire negli ultimi mesi, ma ci sono momenti in cui bisogna fermarsi, staccare la spina.
Ho accettato di trascorrere un periodo lavorativo all’estero e quando l’ho fatto era un’opportunità che non volevo farmi scappare.
Dopo quattro mesi e mezzo quest’avventura sta finalmente volgendo al termine, ma ci sono dei problemi di tipo burocratico che riguarderebbero dei conguagli con le tasse. A causa di ciò ho seriamente considerato l’idea di allungare questo periodo di lavoro, anche a scapito della mia felicità.
Stavo anteponendo i soldi al mio benessere.
“Ma perché scegliere tra i soldi e tornare a casa da te?“
Ponendo questa domanda retorica mi sono reso conto di quanto io fossi disposto a farmi del male (e a farne) per non perdere dei soldi, di quanto fossi disposto a concedere a qualcun altro il controllo sulla mia vita, sul mio benessere, sulla mia felicità.
“Se considero questa avventura già finita perché tirare avanti?“
“Ho davvero avuto il dubbio tra l’amore e i soldi?“
È vero, si potrebbe farne una questione relativa al valore del sacrificio fatto, del “peccato” che sarebbe perdere dei soldi per una questione burocratica. Posso capire questo discorso, ma anche in questo caso mi sembra si tratti di assegnare un valore PURAMENTE ECONOMICO al sacrificio fatto, privando l’esperienza della sua tridimensionalità e dell’estremo impatto che ha avuto su di me. Tornare a casa, o ripartire verso la Papua Occidentale, vuol dire ogni volta prendere quattro aerei e una barca; due giorni di viaggio quasi senza sosta. Aldilà dello stress fisico del viaggio, lo stress mentale del vivere in un container completamente immerso nella giungla, lavorando dieci ore al giorno – due turni da cinque ore – sette su sette, è stato molto forte. Senza contare il fatto che ci sono otto ore di fuso orario che mi separano dalle persone che amo che rendono le comunicazioni frammentate, staccate, singhiozzanti. Questo è causato anche dalla percezione del trascorrere del tempo, che cambia quando in mancanza di punti di riferimento: quando tutto intorno c’è una coltre immobile di alberi, e le persone attorno si muovono tutte alla stessa velocità, il tempo procede con un andamento che è impossibile descrivere come più veloce o più lento, perché non c’è termine di paragone. Non c’è il traffico cittadino, le uscite la sera, il divertimento, la compagnia, la noia, i pomeriggi in casa, le sere tristi della domenica o le esperienze del mondo che ci circonda che, in un certo modo, influenzano l’andamento della nostra vita, cambiando la nostra percezione del tempo. Guardare qualcuno fare tante attività e pensare “ma come riesce a fare tutte queste cose?!” significa deformare il proprio spazio-tempo per cercare di sovrapporlo a quello di qualcun altro, creando una relazione dalla quale si capisce quanto ognuno di noi viva la propria vita ad una velocità relativa. Perdere questa relatività, vivendo ogni giorno come se fosse uguale al precedente, confonde al punto da pensare che il tempo si sia fermato. Per fortuna questo fenomeno non ha una scala universale: le albe, i mezzogiorni e i tramonti arrivano puntuali ogni volta a ricordarmi che all’universo il concetto di centralità non piace e, se anche gli piacesse, non lo avrebbe affidato a me. Insomma, non sono il centro dell’universo. Tuttavia la mia percezione del tempo si è distorta al punto tale da non rendermi conto che, aldilà della mia compagna con la quale parlo due volte al giorno, mi capita di riprendere delle conversazioni dopo giorni. Questo perché per me è sempre lo stesso giorno. La stessa sveglia, la stessa colazione, lo stesso turno di lavoro, (quasi sempre) lo stesso pranzo, la stessa cena, le stesse conversazioni.
Quando mi è sembrato di vedere la luce in fondo al tunnel, di vedere la fine di questo percorso, ecco che sorge questa problematica burocratica la cui soluzione “naturale” sarebbe quella di allungare la mia permanenza in questa dimensione onirica, così da soddisfare dei requisiti per la tassazione relativa al periodo di lavoro all’estero e non perdere dei soldi.
La cosa che più mi stupisce è che io mi ero quasi convinto, al punto da vedere degli ulteriori lati economicamente positivi in questa estensione. E non importa se da un punto di vista professionale questa esperienza si può considerare conclusa già ora; non importa se prolungare la mia permanenza qui non è positivo per il mio benessere.
Stiamo parlando di soldi, tutto il resto passa in secondo piano.
Per fortuna non è possibile ignorare i segnali che arrivano da corpo e mente: “cerco sempre di sorridere e di essere forte ma sono esausto, spesso trattengo le lacrime durante le ore lavorative, specie quelle in cui non ho nessuno con cui parlare a causa del fuso orario; mangio da solo e il tempo che non spendo a lavoro lo spendo nel mio container; ho smesso di fare attività fisica“.
Uno dei pensieri che mi ossessiona mentre quest’avventura volge al termine è che allungare avrebbe voluto dire permettere a qualcun altro di noleggiare il mio corpo, la mia mente, il mio tempo e la mia vita. L’idea di essere un prostituto mi è già capitata pensando al mio posto di lavoro: lavorare nell’industria del fossile è quanto di più distante ci sia dai miei desideri ed è solo per soldi che lo faccio. Fino a quando varrà la pena prostituirsi? Arriverà mai il momento in cui prostrarsi all’altare del capitale, sacrificando se stessi, non sarà la scelta più logica?
Non lo so, ma nel frattempo io ho deciso di perdere dei soldi per salvaguardare il mio benessere personale. Non è la prima e non sarà l’ultima presa nell’ultimo periodo.
Iniziare a scrivere è stata una di queste scelte e mi dà la possibilità di mettere ordine ai tanti pensieri che affollano la mia mente. Io non so se per le altre persone è così, ma è come se il mio cervello vivesse più vite contemporaneamente e in ognuna delle quali io esploro le realtà più disparate. È come se fosse un potentissimo simulatore, a volte addirittura migliore a simulare che a comprendere la realtà. Non basterebbe una singola vita per riuscire a realizzare tutte le mie fantasie, ma sono certo che perseguire alcuni di questi sogni sia la strada per riuscire a trovare un po’ di pace. Condividere la mia scrittura, piuttosto che lasciarla nelle note del mio cellulare, è un modo per vincere la paura che ho sempre avuto di esprimere determinati lati della mia personalità. Forse è per questo che immagino così tante versioni alternative di me stesso: chissà, magari l’immaginazione è la valvola di sfogo di una realtà mancata.
Tornando al discorso principale: credo sia fondamentale chiedersi quanto si può tirare la corda del proprio benessere in favore di beni materiali.
Non voglio essere frainteso: so benissimo che c’è chi è costretto a scendere a patti che rasentano lo schiavismo per garantirsi un pezzo di pane, magari rischiando comunque di non riuscire ad arrivare a fine mese. Sebbene mi renda conto che l’insieme di regole che muovono la società sono la conseguenza della mentalità capitalistica di questa era della specie umana, non mi rende felice pensare che la conseguenza di ciò sia che le persone debbano vendere la maggior parte della loro vita per assicurarsi la sopravvivenza. Certo, si potrebbe controbattere che è meglio lavorare che cacciare in gruppo o andare alla continua ricerca di frutti commestibili. Potrei anche essere d’accordo, ma ciò non deve per forza voler dire accettare condizioni sempre più degradanti. Sono anche conscio del fatto che, attraverso il progresso tecnologico, la qualità della vita dell’uomo sia in costante miglioramento, ma non per questo bisogna accettare il modello per cui la qualità di alcuni debba migliorare incredibilmente di più di quella di altri.
(Inoltre, non abbiamo di fatto soltanto spostato la lotta per la sopravvivenza? Non competiamo più direttamente per il cibo, ma lo facciamo indirettamente attraverso la competizione per un lavoro. Non mi sembra tanto diverso.)
Per cui non è in alcun modo mia intenzione giudicare chi accetta lavori degradanti per non morire di fame, ma anzi condanno chiunque si approfitti di chi è costretto ad accettare condizioni non dignitose. Tuttavia credo sia necessario e utile per chiunque provare a staccarsi dalla mentalità per cui tutto ha un prezzo e che per la giusta cifra si farebbe qualunque cosa. Credo ci sia bisogno di rendersi conto, invece, che ogni scelta ha un costo non materiale e che non sempre il prezzo (quello invece si, materiale) che decidiamo di farci pagare riesce a farci rientrare delle spese e, per questo, stiamo male.
Forse sto generalizzando ciò che è successo a me, sto universalizzando la mia percezione della situazione che sto vivendo adesso. Non lo so.
Ciò che so è che, finalmente, tra qualche giorno staccherò la spina per un po’. Non vedo l’ora.