Una marcia in più.

Lo so che sto ripetendo per l’ennesima volta da dove vengo, ma è proprio lì che sto tornando: nella mia Napoli. Ci torno soltanto per una settimana, niente di straordinario, eppure ogni volta è diversa. So anche che ho detto milioni volte (in una ventina di articoli, ripeto sempre le stesse cose?) che ora vivo a Milano, ma è proprio su questo che riflettevo.

Mi viene in mente una cosa che mi è stata detta da più persone (napoletane come me) nella mia cerchia, ovvero che “noi abbiamo una marcia in più”. Lo penso anche io, ma non in quanto napoletano. Non per il banale campanilismo per cui noi siamo meglio di loro, basato sulla retorica spicciola della “nobilitazione della povertà” in cui ricadono tutti i più classici stereoritipi sul Sud in generale e in particolare su Napoli: l’ospitalità, il buon cuore della gente, la generosità, l’avere una marcia in più. Tutto questo per continuare a propinare l’idea che “è vero i soldi sono al Nord, ma noi abbiamo benaltro”, magari considerato ben più importante. Le caratteristiche elencate le hanno le persone, non i luoghi di appartenenza, e anzi avere più possibilità permette quasi sempre di avere futuro migliore. Alziamola un po’ quest’asticella, siamo tutti e tutte meglio di così.

Il Nord Italia, si sa, è considerato il motore d’italia e non potrebbe essere diversamente, dato che una grandissima quantità del PIL italiano è prodotto lì. C’è una quantità spropositata di ragioni culturali, politiche ed economiche che hanno portato l’Italia a vivere questo dualismo interno e non voglio parlarne (né tantomeno posso, ad essere sinceri). Un fattore alla base di queste disparità, che si autoalimenta negli anni, è l’espatrio di giovani verso Nord per studio o lavoro, alla ricerca di quelle maggiori possibilità che garantiscono un futuro migliore: università con più fondi e più legami con aziende del territorio, posti di lavoro meglio retribuiti e con più diritti o una qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni locali di gran lunga superiore a quella offerta nel Meridione (e non venitemi a parlare male di Trenord se non avete provato la circumvesuviana che mi incazzo). La strana conseguenza di tutto ciò è che chi arriva dal Sud è quasi obbligato ad affrontare cose che chi è nato al Nord, a volte, neanche immagina: la rabbia nei confronti della propria terra, incapace di trattenerti; il fascino dell’emigrazione, un nuovo inizio in cui essere qualcuno di completamente diverso; l’abbandono degli affetti, quali famiglia, amici,  amiche e partner; la sensazione di parziale distacco dalle proprie radici e il contemporaneo volerle tenere nel modo più saldo possibile. Chiaramente c’è un elemento molto personale in queste sensazioni, forse addirittura prevalente, ma ho l’impressione che esse siano parecchio diffuse.

Il 29 giugno 2020, la data del mio espatrio, delle lacrime si sono fatte strada tra i peli della barba che ancora oggi affolla le mie guance. Stavo andando via di casa. Dei miei, certo, ma anche dalla mia città; da una parte della mia identità. Quasi quattro anni dopo, ancora oggi per i viaggi in direzione Napoli uso il verbo “tornare”, così come fa chiunque altro intorno a me. Non importa che nel frattempo Milano mi abbia offerto ospitalità, lavoro, vecchie amicizie ritrovate, nuove amicizie, la convivenza con la mia compagna, un’esperienza lavorativa all’estero e che sia il fulcro del mio futuro a breve, se non a medio termine. Io non vado a Napoli, io ci torno. Allo stesso modo, paradossalmente, da Napoli io torno anche a Milano, come se mi trovassi in un pendolo che oscilla imperterrito, senza conoscere attrito che possa bloccarlo. È una sensazione strana quello di un viaggio senza alcuna andata, ma fatta di due ritorni.

Sono certo però che se domani tornassi definitivamente a Napoli e, per qualche ragione, dovessi organizzare un periodo di soggiorno a Milano non userei il verbo tornare, bensì andare. Sembra stupido, lo so, ma il modo in cui ci esprimiamo mostra la nostra prospettiva sulle cose, a volte aiutandoci, altre tradenoci.

Stare in questo limbo, vivendo una condizione di semiapolidismo, unito al fatto di vivere una quotidianità in cui gran parte dei tuoi rapporti cambia quando non si sgretola del tutto, pone davanti alla condizione per cui bisogna essere spigliati, bisogna imparare ad interagire con persone nuove, con un nuovo contesto, perché siamo animali sociali e da soli non sopravvivremmo neanche un minuto, specialmente oggi. Per tutte queste ragioni, tutti quelli che vivono quella condizione di esperimento sociale, di soggetto trapiantato in una realtà con più mezzi dai quali attingere, hanno una marcia in più.

Devo fare un’ammissione di colpa, non sono stato completamente sincero. Ho volutamente data per scontata una parte del ragionamento, una parte fondamentale: stiamo parlando di contesti agiati e non di chi cerca fortuna perché non ha nulla da perdere. Non bisogna mai dimenticarlo che siamo dei privilegiati e infatti mi piacerebbe chiudere questo pezzo volgendo lo sguardo al “problema” dell’immigrazione irregolare. Volgere lo sguardo verso ciò che lasciano, verso i rischi che corrono dall’istante in cui famiglie allargate raccolgono soldi da dare a dei criminali per le spese di viaggio di una persona; verso le difficoltà, le discrimazioni; verso una politica che non ha mai avuto intenzione di far niente, foraggiando gli stessi criminali piuttosto che combatterli. Criminali – e qui lo intendo includendo anche i politici italiani ed europei, ma anche noi tutti che non ci ribelliamo – che violano la dignità, molto spesso la vita, di esseri umani così disperati da accettare comunque questo patto. Esseri umani che avrebbero un’infinità di marce in più, ma ai quali non è permesso ingranarle.

Vite anacronistiche

Dicono tutti le stesse cose. Sempre.

Chi l’ha già comprata, chi la sta cercando; chi si è già sposato, chi sta capendo come fare la proposta.
Quante volte avrò sentito dire che “Stare in affitto sono soldi buttati” oppure la mia preferita “ma comprare casa a Milano è un investimento: se dovessi spostarmi la metterei in fitto o la rivenderei”. Seh, come se fosse facile.

Aldilà del fatto che della scelta in sé di sposarsi, fare figli, comprare casa con trent’anni di mutuo a me interessa poco, quello che non riesco a capire è come facciano le persone, che stimo e reputo intelligenti, a ripetere a pappardella le stesse cose che mi dice mio padre che fa il parrucchiere. Il mio papà è una persona curiosa e intelligente e, più in generale, non credo che grado di istruzione o il mestiere definiscano la caratura culturale di una persona. Insomma, non voglio passare per classista, ma forse la cosa che sto per dire un po’ lo è. Se hai passato la tua vita a formarti e hai avuto opportunità che mio papà neanche sognava e ripeti come un mantra le sue stesse cose, qualcosa non va. E non è che non vada perché la scelta di sposarsi, fare un figlio o comprare casa siano sbagliate, ma perché dietro a queste scelte ci vedo un enorme sforzo di adesione a dei canoni anacronistici, totalmente al di fuori della realtà. Mio papà ha iniziato a lavorare adolescente, ha imparato un mestiere e si è fatto strada con le unghie e con i denti in un periodo in cui economicamente, in Italia, non si stava neanche male, tutt’altro. Stessa cosa dicasi per la mia mamma. Venivano da famiglie numerose (mamma più di papà, sono sette tra fratelli e sorelle, otto se si conta il piccolo Luciano che è morto poco dopo la nascita) e hanno vissuto in case popolari. Adesso stanno pagando ciò che resta del loro mutuo trentennale, hanno un figlio laureato magistrale, una figlia che vive sotto il loro stesso tetto ma con un buon lavoro, auto e motorino. Insomma, hanno avuto opportunità a partire dal nulla. Non solo, hanno perseguito quel modello abbastanza canonico (almeno al sud Italia) per cui si esce da casa dei genitori da sposati, se non addirittura più tardi quando si ha la possibilità di comprare un immobile. Non hanno mai avuto intenzione (se non più tardi nella vita, ma molto più tardi) di cambiare contesto, di lasciare Napoli alla ricerca di nuove opportunità, né ne sono stati “costretti”. Avevano un piano di vita strutturato a prescindere dai loro desideri: matrimonio, figli, casa. Suona familiare?

Torniamo alla mia cerchia di conoscenze e a questa irrefrenabile voglia di comprare casa. Come dicevo, sono laureato in ingegneria chimica. Se pensate che mi stia vantando di qualcosa, vi sbagliate perché non c’è assolutamente nulla di cui vantarsi. Al giorno d’oggi laurearsi è molto più semplice rispetto ai tempi dei miei genitori. Ciononostante non è sbagliato dire che ho un grado di istruzione e formazione altamente specializzato, così come chiunque altro attorno a me (sembra che io ce l’abbia con chi non ha studiato nella vita, ma non è così. Semplicemente le mie conoscenze le ho fatte a scuola e all’università, ma non credo che studiare renda migliori. ANZI). Questo altissimo grado di formazione non assicura né uno stipendio faraonico (e io guadagno pure bene rispetto alla media degli ingegneri) né, a quanto pare, una capacità di discernimento sopraffina. Sorvolerò sul matrimonio, che ritengo utile soltanto per questioni “legali” ed economiche ma che resta una scelta infinitamente personale: credo nell’amore come sentimento universale, non nel romanticismo capitalista e patriarcale di San Valentino e del matrimonio; se qualcuno crede in queste cose o le apprezza, chi sono io per giudicare? L’unica cosa che mi sbalordisce a tal riguardo, e che mi fa anche un po’ ridere, è il dare per scontato che ci si debba sposare: miei coetanei che si chiedono, e MI chiedono, quando chiederò la mano della mia compagna per vivere il sogno di possederla per sempre.
“Un anello per domarla; un anello per trovarla; un anello per ghermirla e, nell’oscurità, incatenarla”, non era così? Io nel frattempo convivo con la mia compagna da tre anni e i piani a lungo termine non mancano. Quello che manca, agli occhi degli altri, è che tutto ciò non è stato contrattualizzato e messo in bella mostra con una festa sfarzosa piena di riti aberranti. Vabbè, proseguiamo.

Per fortuna, quasi nessuno parla ancora di fare dei figli. Quindi lasciamo stare un attimo questo discorso. Prevedo aggiornamenti nei prossimi mesi.

Arriviamo al clou, al pezzo forte: comprare casa. Lo so che sembra assurdo, ma per capire da quanto lontano parte la mia critica basti pensare che questo articolo diventerebbe un saggio (forse lo farà, qualche nota l’ho già buttata). Sostanzialmente le mie critiche partono tutte dal fatto che, rispetto alle generazioni precedenti, chi è nella fascia d’età tra i 25 e i 40 non ha il lavoro dei sogni. La forte adesione ai valori di un’azienda non esiste più, è un mito passato e diventato tanto vecchio quanto il potere d’acquisto dello stipendio medio, che non segue il passo della vita che diventa di anno in anno (ma che dico, quasi di giorno in giorno!) sempre più cara. Anche volendo fare il paragone solo con gli emigrati al nord Italia delle generazioni passate (escludendo chi, come i miei genitori, questa possibilità non l’ha mai presa in considerazione), quelli della mia generazione non sono per forza emigrati per restare: certo c’è chi vuole, ma c’è anche chi ambisce a fare altre esperienze, così come c’è chi vuole tornare a casa, soprattutto perché il paradigma per cui l’uomo partiva e la donna lo seguiva non esiste quasi più. Ormai è quasi più comune che una coppia abbia sperimentato un periodo di relazione a distanza che il contrario, soprattutto in ambiti in cui il livello di istruzione è più alto. Questo paradigma non esiste più anche perché, per fortuna, il livello medio dell’istruzione femminile è cresciuto nel tempo.
Se a stipendi che non aumentano e mancanza di certezza relativamente alla propria stanzialità, si aggiungono una gentrificazione sempre più spinta e bolle immobiliari che fanno arrivare a costare cifre spropositate dei buchi ignobili, diventa chiaro che mi pongo la domanda:

MA PERCHÈ CAZZO CONTINUATE A VOLER COMPRARE CASA?

E non sto dicendo in generale, ma parlo di persone ben precise che hanno una situazione molto simile alla mia. Persone che pensano di fare trent’anni di mutuo pensando di risolverla mettendo in affitto o vendendo casa in caso di trasloco, pur non avendo la forza di reggere periodi senza inquilino o una possibile perdita di valore dell’immobile. Persone che, mi sembra, mentano a loro stesse pur di inseguire dei canoni di normalità dettati dall’alto delle generazioni precedenti, per le quali l’idea di sostenibilità ha la stessa utilità della carta igienica, e che stanno stringendo attorno al proprio collo un cappio difficile da rimuovere. Persone che decidono di vivere una vita anacronistica nel segno della ricerca spasmodica di uno status sociale fatto di proprietà e di capitale piuttosto che di felicità.

Spero che le persone che mi circondano tra trent’anni, quando avranno finito di pagare i loro mutui, abbiano avuto la vita migliore possibile. Per ora, mi concedo il beneficio del dubbio.