Lo so che sto ripetendo per l’ennesima volta da dove vengo, ma è proprio lì che sto tornando: nella mia Napoli. Ci torno soltanto per una settimana, niente di straordinario, eppure ogni volta è diversa. So anche che ho detto milioni volte (in una ventina di articoli, ripeto sempre le stesse cose?) che ora vivo a Milano, ma è proprio su questo che riflettevo.
Mi viene in mente una cosa che mi è stata detta da più persone (napoletane come me) nella mia cerchia, ovvero che “noi abbiamo una marcia in più”. Lo penso anche io, ma non in quanto napoletano. Non per il banale campanilismo per cui noi siamo meglio di loro, basato sulla retorica spicciola della “nobilitazione della povertà” in cui ricadono tutti i più classici stereoritipi sul Sud in generale e in particolare su Napoli: l’ospitalità, il buon cuore della gente, la generosità, l’avere una marcia in più. Tutto questo per continuare a propinare l’idea che “è vero i soldi sono al Nord, ma noi abbiamo benaltro”, magari considerato ben più importante. Le caratteristiche elencate le hanno le persone, non i luoghi di appartenenza, e anzi avere più possibilità permette quasi sempre di avere futuro migliore. Alziamola un po’ quest’asticella, siamo tutti e tutte meglio di così.
Il Nord Italia, si sa, è considerato il motore d’italia e non potrebbe essere diversamente, dato che una grandissima quantità del PIL italiano è prodotto lì. C’è una quantità spropositata di ragioni culturali, politiche ed economiche che hanno portato l’Italia a vivere questo dualismo interno e non voglio parlarne (né tantomeno posso, ad essere sinceri). Un fattore alla base di queste disparità, che si autoalimenta negli anni, è l’espatrio di giovani verso Nord per studio o lavoro, alla ricerca di quelle maggiori possibilità che garantiscono un futuro migliore: università con più fondi e più legami con aziende del territorio, posti di lavoro meglio retribuiti e con più diritti o una qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni locali di gran lunga superiore a quella offerta nel Meridione (e non venitemi a parlare male di Trenord se non avete provato la circumvesuviana che mi incazzo). La strana conseguenza di tutto ciò è che chi arriva dal Sud è quasi obbligato ad affrontare cose che chi è nato al Nord, a volte, neanche immagina: la rabbia nei confronti della propria terra, incapace di trattenerti; il fascino dell’emigrazione, un nuovo inizio in cui essere qualcuno di completamente diverso; l’abbandono degli affetti, quali famiglia, amici, amiche e partner; la sensazione di parziale distacco dalle proprie radici e il contemporaneo volerle tenere nel modo più saldo possibile. Chiaramente c’è un elemento molto personale in queste sensazioni, forse addirittura prevalente, ma ho l’impressione che esse siano parecchio diffuse.
Il 29 giugno 2020, la data del mio espatrio, delle lacrime si sono fatte strada tra i peli della barba che ancora oggi affolla le mie guance. Stavo andando via di casa. Dei miei, certo, ma anche dalla mia città; da una parte della mia identità. Quasi quattro anni dopo, ancora oggi per i viaggi in direzione Napoli uso il verbo “tornare”, così come fa chiunque altro intorno a me. Non importa che nel frattempo Milano mi abbia offerto ospitalità, lavoro, vecchie amicizie ritrovate, nuove amicizie, la convivenza con la mia compagna, un’esperienza lavorativa all’estero e che sia il fulcro del mio futuro a breve, se non a medio termine. Io non vado a Napoli, io ci torno. Allo stesso modo, paradossalmente, da Napoli io torno anche a Milano, come se mi trovassi in un pendolo che oscilla imperterrito, senza conoscere attrito che possa bloccarlo. È una sensazione strana quello di un viaggio senza alcuna andata, ma fatta di due ritorni.
Sono certo però che se domani tornassi definitivamente a Napoli e, per qualche ragione, dovessi organizzare un periodo di soggiorno a Milano non userei il verbo tornare, bensì andare. Sembra stupido, lo so, ma il modo in cui ci esprimiamo mostra la nostra prospettiva sulle cose, a volte aiutandoci, altre tradenoci.
Stare in questo limbo, vivendo una condizione di semiapolidismo, unito al fatto di vivere una quotidianità in cui gran parte dei tuoi rapporti cambia quando non si sgretola del tutto, pone davanti alla condizione per cui bisogna essere spigliati, bisogna imparare ad interagire con persone nuove, con un nuovo contesto, perché siamo animali sociali e da soli non sopravvivremmo neanche un minuto, specialmente oggi. Per tutte queste ragioni, tutti quelli che vivono quella condizione di esperimento sociale, di soggetto trapiantato in una realtà con più mezzi dai quali attingere, hanno una marcia in più.
Devo fare un’ammissione di colpa, non sono stato completamente sincero. Ho volutamente data per scontata una parte del ragionamento, una parte fondamentale: stiamo parlando di contesti agiati e non di chi cerca fortuna perché non ha nulla da perdere. Non bisogna mai dimenticarlo che siamo dei privilegiati e infatti mi piacerebbe chiudere questo pezzo volgendo lo sguardo al “problema” dell’immigrazione irregolare. Volgere lo sguardo verso ciò che lasciano, verso i rischi che corrono dall’istante in cui famiglie allargate raccolgono soldi da dare a dei criminali per le spese di viaggio di una persona; verso le difficoltà, le discrimazioni; verso una politica che non ha mai avuto intenzione di far niente, foraggiando gli stessi criminali piuttosto che combatterli. Criminali – e qui lo intendo includendo anche i politici italiani ed europei, ma anche noi tutti che non ci ribelliamo – che violano la dignità, molto spesso la vita, di esseri umani così disperati da accettare comunque questo patto. Esseri umani che avrebbero un’infinità di marce in più, ma ai quali non è permesso ingranarle.
Una piccola premessa: se le sole parole non dovessero bastare, puoi trovare un piccolo riassunto dell'Islanda sul mio canale youtube oppure trovi il player alla fine del racconto. Buona lettura!
Il nostro viaggio, mio e di Manu, inizia a Reykjavik, capitale e più grosso centro abitato dell’Islanda che conta la “bellezza” di 140000 abitanti circa. In Italia non farebbe neanche comune a sé. Reykjavik è una città molto piccola e dà un avvertimento dell’isolamento a cui si va incontro durante il giro della ring road. In inverno, viste le temperature molto basse che si raggiungono in città, tutto chiude molto presto, anche perché le ore di luce sono poche. Di solito infatti durante il nostro viaggio il sole albeggiava poco prima delle dieci e tramontava tra le cinque e le sei e le giornate si stavano allungando, nei mesi precedenti le ore di luce erano anche di meno. In estate invece in Islanda c’è il fenomeno opposto, ovvero quello del sole di mezzanotte, dove ci sono 24 ore di luce. Questo succede a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre che espone al sole, per un certo periodo, le porzioni di terra dei circoli polari. Se al sud non ci sono molti posti abitati, al circolo polare artico il fenomeno colpisce parte del Canada, della Groenlandia, della Russia, e dei paesi scandinavi. In teoria non l’Islanda, ma a causa del fenomeno di rifrazione causato dall’atmosfera terrestre e dalla curvatura della terra è possibile vedere il sole di mezzanotte anche da lì. In generale anche nel periodo del nostro viaggio la traiettoria che disegnava il sole dal nostro punto di vista non era il classico arco che va da est a ovest, con il suo punto più alto verso mezzogiorno. Tuttaltro: il sole non diventava mai così alto e anzi sembrava albeggiare e tramontare sempre dallo stesso lato.
In generale l’Islanda non è un paese dalle grandi infrastrutture e infatti ha una strada principale, la 1, che ha una traiettoria circolare, parte e arriva a Reykjavik e per questo viene chiamata ring road. Da questa strada principale si diramano le strade secondarie che permettono di raggiungere attrazioni e centri abitati. Le strade secondarie possono essere di due tipi e sono contrassegnate da numeri a due o a tre cifre: ad esempio 52 e 741. Le strade a due cifre sono solitamente strade secondarie alla ring road ma comunque molto battute e curate, per cui asfaltate e pulite costantemente. Quelle a tre cifre di solito sono diramazioni dalle secondarie per raggiungere attrazioni, quasi mai centri abitati, e può capitare che in inverno siano chiuse perché completamente innevate. Di solito non sono neanche asfaltate. Per fortuna lo stato delle strade è consultabile, anche in tempo reale attraverso delle webcam, su siti curati dal governo islandese in cui viene mostrata la pavimentazione, l’apertura o la chiusura delle strade e addirittura i venti che colpiscono le varie zone dell’isola. La parte sud dell’isola è quella maggiormente turistica ed è infatti molto più visitata rispetto alla parte settentrionale. Il primo giorno di viaggio on the road abbiamo attraversato il parco nazionale di Thingvellir, in cui in estate è possibile passare attraverso una strettoia in pietra in cui i due costoni appartengono a due diverse faglie continentali, ovvero quelle porzioni rigide che costituiscono la parte più esterna e rigida del nostro pianeta. Il fatto che la placca nordamericana e quella euroasiatica si muovano, e si muovano precisamente allontanandosi l’una dall’altra, rende l’Islanda un paese estremamente attivo da punto di vista geologico: nelle settimane precedenti il nostro viaggio, ma anche durante il nostro viaggio, un villaggio chiamato Grindavik è stato inondato dal magma che è risalito da una spaccatura causata proprio dal moto delle placche. Per fortuna era stato precedentemente evacuato, quindi almeno non si è fatto male nessuno.
Il parco nazionale di Thingvellir ha una storia affascinante: durante le prime forme di governo che si vennero a formare nell’antichità in Islanda, questa zona veniva usata come luogo per assemblee e patibolo per giustiziare criminali recidivi: se eri stato giudicato colpevole e tornavi sul luogo del delitto, ad esempio la proprietà di un altro islandese, venivi portato qui per essere impiccato se eri uomo, annegata se eri donna. Oggi è un parco naturale che di inverno si ricopre di neve, con una piccola cascata completamente ghiacciata e il lago Thingvallavatn, il più grande lago di origine naturale dell’isola che all’incirca diecimila anni fa visto ridursi a metà le sue dimensioni a causa della lava che ne bloccava l’afflusso d’acqua. Tuttavia col fermarsi delle eruzioni il lago ha ripreso le sue dimensioni, ma a causa delle suddette eruzioni la conformazione del suolo è cambiata, modificandone la fauna e la flora. Le tappe successive sono state la zona di Geysir, il più antico geyser conosciuto. Il nome del fenomeno esplosivo di acqua e vapore acqueo, geyser, prende il nome proprio da questa porzione di Islanda, appunto Geysir, che sembra derivare dal verbo islandese gjosa, che tradotto in italiano sarebbe “eruttare”, “emettere a fiotti”. Si stima che la zona di Geysir si sia fermata circa 10000 anni fa – sorpresa sorpresa – successivamente a dei fenomeni vulcanici che hanno creato la conformazione a sifone alla base del fenomeno dei geyser. Ultima tappa del primo giorno di viaggio è stata la cascata di Gulfoss, la prima delle tantissime cascate che è possibile ammirare in Islanda. Pur essendo moltissime, ogni volta è un’esperienza diversa e sempre mozzafiato. Infine abbiamo fatto tappa ad Hella per la prima notte on the road. Hella non dista molto da Reykjavik e in generale la prima parte di viaggio ha previsto mete dove dormire mai troppo lontane, perché c’erano molte cose da vedere. Pur vedendo due o tre attrazioni al giorno, più altre di passaggio, comunque non siamo riusciti a vedere tutto ciò che avremmo desiderato. Il secondo giorno di viaggio è iniziato con la visita alla cascata di Seljalandfoss, che fa parte di un complesso più grande e infatti, dopo un brevissimo percorso di trekking, siamo arrivati alla cascata di Glujfrabui, che si trova all’interno di una conca. All’inizio non ci eravamo accorti che ci fossero delle persone all’interno di questa conca e ci chiedevamo se potessimo entrare. Vedere altra gente ha fugato ogni dubbio e così ci siamo addentrati in questo spettacolo di stalattiti che contornava la cascata. Visto che per accedere è necessario passare per il torrente creato dalla stessa cascata, molte presone si fermano ad ammirarla dall’esterno, ma con degli scarponi adatti e le tute da neve è possibile accedere senza troppi danni. Altro giro, altra corsa, altra cascata. Questa volta è il turno di Skogafoss, che è bellissima, ma prendendo la scalinata che la costeggia si arriva ad un sentiero che permette non solo di guardare la cascata dall’alto, ma anche di arrivare ad ammirare la cascata Hestavaðfoss. In realtà il percorso di trekking sembrava proseguire verso chissà quali altri meraviglie (probabilmente altre cascate), ma abbiamo preferito tornare indietro perché ci aspettava un’altra attrazione islandese molto apprezzata: la spiaggia di sabbia nera.
La spiaggia di Reynisfjara si trova in prossimità del villaggio di pescatori di Vik e ad un passo dal mare si può ammirare la parete di colonne di roccia basaltica, la cui erosione le dà il caratterisco colore scuro. All’ingresso della spiaggia c’è un cartello che segnala le zone di sicurezza poichè è molto ventilata e il mare di solito è molto agitato. In generale, se cercate spiaggie bianche, l’Islanda non è il posto adatto: le spiaggie Islandesi sono molto scure perché le rocce da cui deriva la sabbia è di derivazione vulcanica e non è raro che più o meno a largo vi siano delle conformazioni di roccia che spuntano dall’acqua, come ad esempio quella di Hvitserkur, un faraglione di origine basaltica nella zona est dell’isola. Tornando al nostro viaggio, dopo la spiaggia di sabbia nera ci siamo diretti alla guesthouse che ci avrebbe ospitati per la notte, ma lungo il tragitto ci siamo fermati ad ammirare una parte del ghiacciaio Vatnajokull. Nonostante il suo volume sia diminuito negli ultimi trent’anni e non accenna a smettere di diminuire a causa dei cambiamenti climatici, il ghiacciaio Vatnajokull è il quarto per estensione al mondo, con i suoi 8100 km2 di estensione; ancor prima di raggiungerlo si attraversa in auto una zona completamente ghiacciata, ci si ritrova immersi nel bianco. Una volta arrivati è possibile fare dei tour guidati durante i quali è anche possibile scalare pareti del ghiacciaio. Noi ci siamo limitati ad ammirare la spiaggia di diamanti, la spiaggia adiacente al ghiacciaio e che presenta una particolarità che ci ha lasciati senza fiato: ci sono dei pezzi del ghiacciaio sulla spiaggia e al mare! Essendo arrivati nel tardo pomeriggio non abbiamo potuto godere pienamente della bellezza del posto, considerate anche le scarse condizioni di luce, e per questo abbiamo deciso di tornarci l’indomani mattina, ripercorrendo un po’ i nostri passi. Nel frattempo però, la spiaggia di diamanti ci ha regalato una sorpresa inaspettata: abbiamo potuto ammirare delle foche che si rilassavano in lontananza sul ghiacciaio! Questa inaspettata quanto gradita sorpresa ci ha riempito il cuore di gioia e non ci ha fatto pesare l’assenza dell’aurora, ancora troppo timida per mostrarsi. La guesthouse in cui abbiamo pernottato sarebbe stata perfetta per poter ammirare l’aurora: era isolata, distante dalla strada e da centri abitati che avrebbero potuto causare inquinamento luminoso. Per poter ammirare l’aurora infatti c’è bisogno che si verifichino diversi fattori, ma ne parleremo più avanti. Ora torniamo alla spiaggia di diamanti.
Il mattino seguente, come già accennato, siamo ritornati sui nostri passi per poter ammirare con la luce del giorno lo spettacolo dell’azzurro del ghiaccio già ammirato la sera precedente, sperando in un meteo favorevole. Purtroppo le condizioni di meteorologiche non erano delle migliori (non lo erano neanche il giorno precedente e spoiler alert: non lo sarebbero state nei giorni successivi), tuttavia nonostante la poca luce il ghiacchio ha continuato imperterrito a splendere del suo colore azzurro. La particolarità del colore di questi blocchi di ghiaccio deriva dal rilascio delle bolle d’aria presenti al loro interno. Generalmente si ha la percezione che i ghiacciai siano qualcosa di immobile, di statico, ma invece non è così. I ghiacciai si formano attraverso il continuo deposito di neve e il conseguente ghiacciarsi di quest’ultima e durante questo progressivo crearsi di strati di ghiaccio vengono intrappolate delle bolle d’aria. All’aumentare degli strati di ghiaccio, il blocco diventa sempre più pesante, al punto da deformarsi sotto il proprio peso; inoltre, lo strato di ghiaccio a contatto con il terreno tenderà a sciogliersi a causa del calore proveniente dal sottosuolo e l’acqua di fusione farà da lubrificante, permettendo il movimento del ghiacciaio. Quando questo si muove, le bolle d’aria presenti al suo interno possono liberarsi, dando maggiore spazio ai cristalli di ghiaccio che possono ingrossarsi. L’interazione dei cristalli di ghiaccio con la luce restituisce il caratteristico colore azzurro di questi ghiacciai, sui quali durante il giorno si sono posate tantissime foche che ci hanno fatto impazzire, perché non ci aspettavamo di vederne così tante. Qualcuna ci aveva già sorpreso la sera mentre si godeva gli ultimi momenti di luce, ma durante la visita diurna decine di esemplari popolavano il ghiacciaio nuotando nelle acque tra un blocco e un altro, oppure rimbalzando per muoversi sulla terra ferma. Uno spettacolo tanto tenero quanto divertente. L’Islanda ospita per lo più due specie di foche: la foca comune e quella grigia. In generale questi animali coesistono sulle coste e infatti non è poi così raro vedere colonie di entrambe le specie, alcune spiagge sono addirittura segnalate su google maps come possibili punti di osservazione, come ad esempio la spiaggia di Ytri Tunga. Nonostante ne abbiamo viste molte, la popolazione di foche islandesi si è ridotta di moltissimo a causa per lo più di fattori esterni come la caccia e i cambiamenti climatici. Si stima che il numero di esemplari di foca comune sia diminuito del 90% negli ultimi quarant’anni. Se pensate sia un caso, le foche grigie hanno visto ridurre la loro popolazione del 67% se si guarda agli anni tra il 1990 e il 2012.
Dopo aver ammirato le foche rilassarsi siamo quindi tornati a percorrere la ring road, proseguendo il nostro viaggio. Da qui in poi le tappe giornaliere sono diminuite e non tanto perché nella parte settentrionale ci siano meno attrazioni quanto perché questa parte è meno turistica, per cui a volte le attrazioni non erano facilmente raggiungibili o addirittura interdette, viste le condizioni delle strade secondarie. Inoltre, per poter concludere il giro della ring road avevamo tanti chilometri da percorrere, spesso in condizioni di scarsa visibilità, per cui abbiamo scelto di guidare soltanto durante le ore di luce. Nonostante ciò non bisogna commettere l’errore di pensare che la parte nord sia meno attraente o affascinante di quella meridionale, anzi: la parte settentrionale dell’isola è aspra e mette a dura prova i viaggiatori; le infrastrutture sono pochissime e spesso concentrate in piccoli villaggi e per decine e decine di chilometri spesso c’è solo la strada che spezza a metà l’orizzonte.
Quindi, dopo una veloce tappa in un piccolo villaggio chiamato Hofn, ci siamo diretti verso la meta successiva, un centro abitato di nome Egilsstadir. Come già accennato in precedenza, le condizioni meteo non sono state delle migliori e spesso questo significava vedere un piccolo tratto di strada e poi bianco tutt’intorno a noi. Sarà che in queste condizioni non avevo mai guidato, sarà che mi trovavo ad esplorare un’isola nel profondo nord del mondo, ma io ho trovato anche questa condizione molto affascinante, per non parlare del fatto che quando la visibilità aumentava i paesaggi che era possibile ammirare erano pazzeschi: montagne innevate con striature nere a ricordarne l’origine vulcanica; oppure i fiordi, lembi di mare che sembravano penetrare nella terra o ancora chilometri e chilometri di distese ghiacciate o innevate oppure coste rocciose da un lato e il fianco di una montagna dall’altro. Insomma, ogni giorno l’Islanda è stata capace di offrire uno spettacolo sempre diverso.
Un’altra peculiarità di questo meraviglioso paese è rappresentata dalla vasta quantità di bagni termali naturali. L’Islanda è piena di sorgenti naturali in cui è possibile immergersi in acqua calda anche quando fuori nevica e le temperature scendono sotto lo zero. Il complesso di bagni termali più famoso, e per questo più visitato, è il Blue Lagoon ma se ne possono citare tanti altri come ad esempio la Secret Lagoon, situata nel golden circle (quella zona comprendente il sopracitato parco nazionale di Thingvellir e la cascata Gulfoss) oppure la Skye Lagoon. Noi non siamo stati in nessuno di questi, bensì al complesso nei pressi del lago Myvatn, ai Myvatn Natural Baths, nel nord dell’isola. La struttura è abbastanza essenziale nello stile (spesso le strutture erano minimaliste, ma sempre super attrezzate) con queste vasche naturali circondate da pietre laviche e staccionate di legno. Inizialmente sembra una pessima idea quella di spogliarsi ed uscire durante una nevicata e con temperature sotto lo zero col solo costume da bagno, ma una volta entrati in acqua ci si rende conto che ne vale assolutamente la pena. Il calore dell’acqua, dai 35ºC ai 41ºC, unito alle esalazioni sulfuree della sorgente, alla neve che cadeva su di noi e allo spritz tenuto giusto sopra il pelo dell’acqua hanno contribuito a creare un’atmosfera magica, dalla quale non saremmo usciti mai. Ma ahimè avevamo dei chilometri da percorrere fino alla prossima meta, Husavik, e la più grande cascata Islandese da ammirare: Godafoss, che purtroppo non siamo riusciti a vederla perché una volta arrivati in prossimità della cascata c’era un trekking da affrontare e temevamo che si sarebbe fatto buio.
Sorgenti termali e geyser sono attrazioni che rendono l’Islanda affascinante e danno il proprio contribuito a stimolare il turismo nel paese, ma non sono gli unici motivi per cui l’unione tra l’acqua e l’attività geologica è preziosa: l’Islanda infatti utilizza moltissimo l’energia geotermica per produrre energia elettrica. L’energia geotermica sfrutta le alte temperature del sottosuolo derivanti dal strato fluido di roccia fusa presente nel mantello per generare vapore acqueo, con il quale si alimentano delle turbine che generano energia elettrica.
Se le mete per i pernottamenti finora erano state scelte tenendo conto di tempi, distanze e attrazioni da percorrere, Husavik è stata scelta per un motivo ben preciso: il whale watching. Tra marzo e ottobre infatti è possibile partire a bordo di un peschereccio per provare ad avvistare diverse specie di cetacei come delfini, orche o balene. Essendo andati in Islanda a febbraio ad Husavik non c’era nessuna spedizione che partisse, ma per fortuna siamo riusciti a trovarne una ad un’ora e mezza di distanza da Husavik, di strada verso la nostra meta successiva. Lo so, è strano che io citi un posto da cui alla fine non siamo riusciti a partire, ma è da Husavik che parte la maggior parte delle spedizioni durante l’anno, per cui vale la pena di considerarla come tappa del proprio viaggio on the road.
Dunque, raggiunto l’hotel dal quale partiva la spedizione, abbiamo indossato la tenuta impermeabile sopra i già tanti strati termici che avevamo e siamo salpati, nonostante non fosse il periodo migliore per osservare i cetacei.
Una piccola memoria islandese, fatta in condivisione con Manu: la sua sta saltando a testa in giù, comportamento tipico delle megattere (Humpback whales). Il mio sesto tatuaggio, non vedo l’ora di farne altri.
Le femmine di megattera, infatti, migrano durante l’inverno alla volta di acque più calde per poter partorire i propri cuccioli. Per nostra fortuna gli esemplari maschi sono molto più stanziali e restano nei mari del nord, per lo più a sonnecchiare e aspettare che le temperature diventino più miti. Dopo un breve tratto a largo, in direzione nord, abbiamo avvistato una megattera che sonnecchiava. I cetacei, così come le foche, pur essendo animali marini hanno bisogno di aria ed è per questo motivo che risalgono a galla: attraverso i loro sfiatatoi le megattere buttano fuori aria satura di anidride carbonica e acqua e inspirano aria pulita prima di riscendere nelle profondità degli abissi. Per questo motivo è possibile vedere anche durante l’inverno gli esemplari maschi risalire sul pelo dell’acqua di tanto in tanto, pur non mostrando grandi segni di vita; le megattere sono infatti solite saltare al di fuori dell’acqua per poi ricadere di schiena sulla superficie. Il cosiddetto breaching è un comportamento che lascia ancora incerti: le varie ipotesi delle motivazioni di un comportamento simile vanno dal gioco alla comunicazione con altri esemplari, passando anche per la pulizia. Purtroppo è uno spettacolo che non ci è stato concesso, ma in ogni caso osservare un esemplare, David Blowie, riemergere timidamente, sbuffare e poi immergersi di nuovo con un ritmo cadenzato è stato qualcosa di commovente, soprattutto perché una delle principali cause della diminuzione del numero di esemplari è stato la caccia intensa della quale i cetacei come le balene sono stati vittime. Pur non essendo dei super predatori al vertice della catena alimentare, le balene hanno dimensioni tali da non essere le vittime preferite di molti animali: il loro predatore naturale è rappresentato dalle orche, praticamente le uniche a cacciarle tolto, appunto, l’essere umano. Per fortuna il fenomeno della caccia alla balena è diminuito e il numero di esemplari è aumentato, ma i cambiamenti climatici e i commerci navali globali mettono a serio rischio le rotte migratorie di questi splendidi animali. Tornando alle megattere, queste hanno dimensioni che vanno dai nove ai diciassette metri e si nutrono principalmente di Krill, dei piccoli gamberetti che non vanno oltre i due centimetri di lunghezza. I mari del nord ne sono ricchi ed è per questo che i maschi di questo animale restano nelle acque islandesi: in questo modo avranno cibo a sufficienza per superare l’inverno mentre le femmine danno alla luce dei cuccioli, i quali seguiranno le madri per un paio d’anni prima di diventare indipendenti. Rispetto ad altri esemplari del mondo animale sembra tantissimo, ma bisogna considerare che gli esemplari di megattera vivono tra i cinquanta e gli ottant’anni e che quindi dovranno competere per cibo e partner per praticamente tutta la vita. Sono animali promiscui, che non mantengono cioè un partner per tutta la vita, e dei quali recentemente sono stati immortalati due esemplari dello stesso sesso avere un rapporto, in barba alla narrazione secondo cui l’omosessualità non è “naturale”. Non solo, un recente studio sembra aver finalmente compreso come facciano le balene a cantare rimuovendo le laringi di alcuni esemplari morti, ma ancora in buono stato di conservazione. Sembra assurdo, ma non è così banale cantare sott’acqua, soprattutto se hai bisogno di aria per vivere e non hai le branchie.
Tornati a terra con gli occhi ancora ripieni di commozione e meraviglia ci siamo diretti verso la meta successiva, ovvero Siglufjörður, un piccolo centro abitato situato nella parte occidentale dell’isola, come suggerisce il nome, nell’insenatura di un fiordo. Tolti un piccolo market dove rimpinguare le nostre provviste e un fast food ad una pompa di benzina dove abbiamo cenato, a Siglufjörður non c’era molta vita. Ce ne era talmente poca che al fast food una delle cameriere, di nazionalità greca, ci ha chiesto se fossimo noi i greci che si vociferava fossero arrivati in paese. Onestamente non so se fossimo noi – so benissimo che né io né Manu siamo greci, non so se la voce si riferisse erroneamente a noi -, ma in ogni caso è stato piacevole riuscire a parlare con una local acquisita. La ragazza in questione è stata molto gentile e ci ha raccontato un po’ della sua esperienza: dopo aver lasciato la Germania, lei e il suo compagno si sono trasferiti in Islanda in cerca di maggior fortuna, che pare abbiano trovato. Il suo stipendio, dice, è alto, ma il costo della vita lo è altrettanto. Non si lamenta dell’aspetto economico, mentre un discorso diverso è quello emotivo: stare molto lontani dalle proprie famiglie è dura e non aiuta nell’ottica di creare una famiglia. Same old story. Con l’approcciarsi della fine del nostro tour lungo la ring road è diminuito anche il numero di attrazioni che ci fermavamo ad ammirare, un po’ perché un po’ di stanchezza si faceva sentire, un po’ perché le attrazioni erano meno raggiungibili, a volte addirittura irraggiungibili causa neve per cui nei giorni successivi, come già accennato, il viaggio ha previsto per lo più parti di guida lungo i panorami islandesi – comunque mai banali -, pasti e riposo dopo aver visto al massimo l’attrazione più facilmente raggiungibile dalla ring road. Eravamo stanchi, ma non sazi. C’era ancora l’aurora da vedere.
Al giorno d’oggi vedere l’aurora è molto più semplice rispetto ai tempi in cui non esisteva internet, grazie alla possibilità di utilizzare applicazioni che mostrano l’attività solare e le zone di visibilità dell’aurora, le condizioni meteorologiche in termini di copertura del cielo e di percentuale di possibilità di vedere le luci danzanti per ogni ora del giorno e della notte. Chiaramente ogni sera, al calar del sole, controllavamo l’applicazione per controllare se durante la notte avremmo avuto la possibilità di gioire dell’ennesimo spettacolo di questa terra tanto aspra quanto generosa e finora non avevamo avuto fortuna. Ma l’Islanda pare avere una vena romantica che fin a quel punto ci era rimasta nascosta: nella notte tra il 13 e il 14 di Febbraio, San Valentino, abbiamo avuto l’onore di poter osservare l’aurora formarsi nel cielo notturno.
L’aurora boreale vista dalla finestra della guesthouse. Pur essendo uno spettacolo poetico, la modalità notte della fotocamera ha aiutato a rendere la foto ancor più spettacolare.
Durante il giorno precedente all’avvistamento non avevamo visto praticamente nulla perché Manu si sentiva poco bene (non che io stessi meglio con i miei 38.5ºC di febbre e tirando avanti a suon di tachipirine) e dopo aver fallito l’impresa di visitare un cratere vulcanico a causa – sorpresa sorpresa – della strada chiusa a causa della neve, abbiamo deciso di ritirarci nelle nostre stanze, bere un thè caldo e fare il pieno di energie. Inoltre riposare durante il pomeriggio si è dimostrata un’ottima idea visto che l’aurora l’abbiamo vista alle tre della notte successiva. Seppur timida e non così scintillante quanto le foto che i nostri telefoni hanno catturato (grazie modalità notturna), l’aurora è stata comunque uno spettacolo indescrivibile (ma ci provo lo stesso): guardare nel cielo notturno formarsi un alone sempre più definito e brillante, che dal grigio passa al verde per poi ritornare ad impallidire, ha rappresentato uno dei momenti più emozionanti non solo dello stesso viaggio, ma anche della mia vita. Avere la fortuna che il sole scagli una tempesta verso il nostro pianeta, che il cielo notturno sia poco coperto da nuvole e poco affetto da inquinamento luminoso – ad opera di luci terrestri, create dall’uomo, oppure dalla luna che riflette la luce solare – dà la sensazione di essere al momento e al posto giusto. Fa sentire grati con l’universo per come funziona, per aver dato vita a tutto questo e aver concesso la possibilità di ammirare, di godere di quel capolavoro che può essere la vita.
La cena a lume di candela al ristorante dell’albergo della notte successiva, seppur suggestiva e romantica, è parsa poca cosa rispetto allo spettacolo offertoci la notte precedente, oltre a rappresentare l’epilogo del nostro road trip islandese: il giorno successivo ci siamo diretti infatti verso Reykjavik, dove abbiamo pernottato per l’ultima notte dopo un breve giro della città in cerca di souvenir per i nostri cari. Prima di tornare nella capitale però ci siamo regalati un’ultima chicca: andare a visitare la colonia di foche presente alla già citata Ytri tunga. La spiaggia è sabbiosa fino alla riva, con un complesso di rocce sul bagnasciuga che permette alle foche di entrare ed uscire “agevolmente” dall’acqua. In realtà le foche sono molto goffe sulla terra ferma, mentre è in acqua che danno il loro meglio. Tutto ciò ha senso se si considera che i predatori di questi animali si trovano in acqua, mentre la terra ferma rappresenta un posto sicuro.
Dopo aver ammirato questi teneri ammassi di grasso rimbalzare sulle rocce ci siamo recati nella capitale per l’ultima notte, passata nella stanza della nostra guesthouse a ripensare alle meraviglie di questa terra la cui magia deriva dal ghiaccio, dal fuoco e dalla loro interazione; oppure alla coltre infinita di neve che ricopriva interamente il verde del quale si ha soltanto una percezione, poiché non lo si scorge mai davvero. Abbiamo deciso di prenderlo come un invito: dovremo tornare lì in un periodo diverso dell’anno, sia per poter ammirare questi paesaggi mozzafiato tinti di altri colori, di altre sfumature; sia per provare a recuperare i pezzi di cuore che abbiamo lasciato lungo il tragitto, anche se sono già conscio del fatto che forse, una volta tornati, è molto più probabile che ne depositerò altri.
Se ancora non ne hai avuto abbastanza, puoi guardare il video che ho realizzato di questo viaggio.