Mariano

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Ciò che ti piace non dice chi sei.

Durante il festival di Sanremo di quest’anno io ed Emanuela eravamo in Islanda, ma non ci siamo persi né le canzoni né le polemiche del festival. Della polemica non mi andava di parlarne allora, figuriamoci ora che è fredda. L’Italia è tutta piena di pregiudizi, da nord a sud. Il vero problema di quella polemica è l’ignoranza e la grettezza che permea i settori della “cultura”. Quello su cui voglio soffermarmi oggi è leggermente diverso e riguarda una delle canzoni del festival di Sanremo, “i pe me, tu pe te” di Geolier: a mesi di distanza io continuo a canticchiarla mentre lavo i piatti o mentre cammino per strada e continuo ad ascoltarla volentieri, così come mi capita con le altre canzoni di Geolier.

Non è neanche dell’ossessione verso Geolier che voglio parlare (ammesso che ne esista una, ascolto anche tante altre cose), ma di quella fastidiosissima necessità di far coincidere il gusto con la qualità o la rilevanza del contenuto in questione. Mi spiego meglio, ma per farlo è necessario fare una piccola premessa: dietro un pezzo che finisce al festival di Sanremo (più in generale dietro un qualunque contenuto di un certo livello) c’è il lavoro di tantissime persone e in nessun caso il mio intento è quello di giudicare il lavoro altrui, tanto più se si considera che io non ho la minima esperienza come musicista, produttore, scrittore, compositore e così via. Le competenze necessarie e il lavoro di un gruppo di persone che creano un contenuto come una canzone, e una serie di performance su uno dei palcoscenici più importanti di Italia per risonanza mediatica, è qualcosa di gigantesco, difficile anche da immaginare e il prodotto finale, in questo la canzone di Geolier, è di grandissima qualità da un punto di vista commerciale. La questione è tutta lì: pensare che sia il successo a definire un artista come tale.

”Ncopp’ô prendisole quatto bionde e nu fucile pecché sto sulo i’ e d”e fеmmene nun me fido

MONEY – Geolier

Come avrò ripetuto un milione di volte io sono nato e cresciuto a Napoli e mi sono trasferito a Milano quattro anni fa, quindi non dev’essere difficile immaginare che molte delle mie conoscenze siano anch’esse napoletane trapiantate a Milano e che molte di queste apprezzino Geolier. Se si prova a porre una critica sul fatto che Geolier come paroliere sia carente o che tratti più o meno sempre lo stesso tema trito e ritrito (relazioni che non finiscono bene in cui lui spesso è un santo e di lei, più in generale delle donne, non ci si può fidare), si ottengono in risposta domande del tipo “ma come fai a dire che non è bravo?!”, che non hanno alcun senso, ma proviamoci.

Non mi piace porre etichette in generale, ma diciamo che Geolier sia un rapper, perché così si definisce in uno dei suoi pezzi, e in particolare un rapper napoletano. L’utilizzo della lingua napoletana può aiutare a chiudere delle strofe che in italiano altrimenti non si chiuderebbero, questo grazie alla sua peculiarità di troncare le parole (succede con molti altri dialetti italiani).

Piccolo inciso: il mio non è banale campanilismo, il napoletano è veramente riconosciuto come una lingua. Ma è anche di utilizzo comune in una ben definita area dell'Italia, ed essendo l'italiano la lingua ufficiale del paese, il napoletano è anche un dialetto. Per questo motivo mi sono riferito successivamente ai "dialetti italiani". Proseguiamo.

Dicevo, il napoletano è un grandissimo strumento quando si parla di chiusura di strofe perché aiuta sia in termini di metrica, sia di possibilità di rime. Il problema sorge quando è l’unico strumento a disposizione, quando la maggior parte delle strofe si chiude senza una vera e propria rima ma spesso con una lontana assonanza, dettata appunto dalla lingua. Se si aggiunge che la rima che si sente più spesso nei suoi pezzi è tra le parole “me” e “te” (non sono neanche sicuro che si possa definire rima, indagherò), non si dovrebbe far fatica a capire che le rime non sono la sua forza. Cosa non da poco per uno che di mestiere fa rap, poesia di strada. Vero è che la poesia contemporanea gode di schemi molto più liberi e che la rima non è così centrale – per fortuna non si scrive solo in sonetti shakespeariani o in haiku – ma non si può neanche completamente escludere dalle capacità che un poeta dovrebbe avere.
Poniamo un’altra etichetta adesso, quella di cantante. Non è detto che chi canta debba avere quella che generalmente, secondo me erroneamente, viene definita un bella voce. Chi canta deve saperlo fare e per saperlo fare c’è bisogno di un determinato insieme di competenze: riconoscere la tonalità del brano e accordare la propria voce coerentemente, andare a tempo, gestire la respirazione e tanto altro ancora. La tonalità, il timbro e l’estensione vocale dipendono da tantissimi fattori, alcuni dei quali si possono controllare ed altri no. In generale ci si può allenare per migliorare queste caratteristiche, ma se ho una voce da baritono, ho una voce da baritono. Questa cosa non cambia allenandomi.
Dico ciò perché è sempre più spinto l’utilizzo dell’autotune nella musica, col risultato che non è più necessario acquisire delle competenze per fare il mestiere del cantante, ci penserà la tecnologia. Questo apre tutto un altro tema, più generale, che ha un’infinità di ripercussioni nella vita quotidiana e alle quali ancora non ci siamo adeguati.
Comunque, senza divagare oltre, spero sia chiaro cosa intendo dire: un cantante che senza autotune non riesce a cantare, non sa cantare.

Ok, direi che è chiaro che non ritengo Geolier né un bravo cantante, né un buon rapper. Detto ciò, le sue canzoni a me piacciono, mi piacciono pure molto ed proprio a questo che volevo arrivare: non è che perché mi piace – ci piace – qualcosa, questo qualcosa dev’essere per forza incriticabile, perfetto e bellissimo. No! Smettiamo di pensare che ogni cosa che ci piace debba ricevere la benedizione della raffinatezza. Ogni tanto può piacerci anche la merda. Io adoro – ADORO – Dragostea Din Tei, nella versione di Haiducii (in origine credo sia degli O-Zone). Un pezzo che è un’icona del trash, un inno delle serate revival anni 2000 in discoteca. Uno di quei pezzi che strimpelli alla chitarra per ridere con gli amici, che tutti conoscono e col quale perdono la dignità al primo “ma-ia-hiii!”.

Insomma, una vera merda! Bellissimo, ma una merda!

Nel frattempo ho sviluppato un amore indescrivibile per la scena di Seattle degli anni ’90, per il rock classico e per il blues. Ogni tanto ho ascoltato della musica classica, del jazz, il pop più melenso oppure una versione di dieci ore di “What is love” (non so se sia il titolo originale) composta dai versi di Crash Bandicoot, il protagonista dell’omonima serie di videogiochi.

Nessuno di queste cose serve a definirmi, tramite nessuna di essere può passare il giudizio che le persone hanno di me. È questo il cortocircuito logico che mi viene in mente quando mi si risponde “dai ma come fai a dire che non è bravo? non vedi quanto successo ha?”, cortocircuito per il quale se qualcosa ci piace dev’essere per forza bello, non siamo mica scemi; se qualcuno critica un qualcosa che mi piace sta criticando direttamente me, il mio senso critico, il mio gusto.
No! Chi se ne frega! Una cosa può essere analizzata con razionalità anche se ci piace e la rilevanza, la qualità, l’importanza di quel prodotto non dovrebbero pregiudicare la nostra immagine. Anche perché, ad essere sinceri, mi sembra che questo cortocircuito logico interviene quando qualcosa ci piace in modo acritico, cioè ci piace più grazie ad un algoritmo o ad una tendenza che all’ascolto e all’esperienza che facciamo.
Questo è che ciò mi preoccupa davvero.

Io, ad inizio luglio, Geolier lo sentirò dal vivo a Milano e mi godrò il concerto di uno dei prodotti musicali più in voga del momento. Canterò a squarciagola le sue canzoni e mi divertirò, consapevole che questo non lo un renderà rapper migliore.

Monday – Geolier (feat. Shiva). Uno dei suoi pezzi che preferisco, nel quale alla fine c’è una parte in cui la musica viene tolta piuttosto che riscrivere per rientrare nella metrica.

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